Una delle parole più abusate nel mondo del marketing è il termine “sostenibilità”. 

Ci sono prodotti che vengono promossi come delle alternative ecosostenibili, ma in realtà non lo sono. 

Infatti, in alcuni casi, si tratta di specchi per le allodole: le aziende cercano di attrarre il consumatore e di convincerlo a compiere un acquisto attraverso una tecnica nota come greenwashing.

Il consumatore viene così ingannato e indotto all’acquisto di prodotti che sono soltanto apparentemente sostenibili e rispettosi della natura. E questo avviene a discapito dei reali prodotti green.

Il risultato è una perdita di fiducia da parte delle persone nei confronti del vero green marketing e un grave danno alle aziende che si impegnano quotidianamente per la salvaguardia del pianeta.

Che cos’è il greenwashing?

“Green washing” significa letteralmente “lavaggio verde”. Un insieme di tecniche persuasive per rendere interessante un prodotto o un servizio agli occhi del consumatore, facendo leva su presunte caratteristiche ecosostenibili.

Il consumatore viene quindi ingannato e indotto a compiere scelte di acquisto che sono soltanto apparentemente eco-friendly, il tutto a danno dei veri prodotti green.

Etimologicamente, il termine greenwashing nasce negli anni ‘90, dall’unione delle parole “green” e “whitewash”, che in lingua inglese significano “verde” e “verniciatura”. Il verde è infatti il colore associato alla natura e ai movimenti ambientalistici; mentre per “verniciatura” si intende metaforicamente la pratica di «ricoprire per occultare», ovvero cercare di nascondere la polvere sotto il tappeto.

Ecco quindi che in senso stretto il termine andrebbe invece inteso come “verniciatura verde”, piuttosto che “lavaggio verde”. 

Infatti, non è tanto la pratica di “vendere per verde” un certo prodotto, quanto quella di occultarne gli aspetti scomodi e il reale impatto ambientale. Si tratta quindi di una tecnica che tenta di dare ai prodotti «una patina di credibilità ambientale […] una verniciatura ecologista». Verniciare di verde per nascondere le macchie.

Il greenwashing è la contraffazione del concetto di sostenibilità ambientale, in poche parole si tratta di un falso eco-friendly, camuffato a tale scopo per alimentare le strategie di green marketing.

Quando nasce il greenwashing?

Come abbiamo detto, il greenwashing è una strategia di manipolazione che utilizza come leva psicologica la presunta sostenibilità ambientale dei prodotti e servizi coinvolti.

Perciò, il termine greenwashing serve per descrivere «le pratiche adottate da quelle aziende od organizzazioni interessate ad acquisire una reputazione verde».

Secondo Carlo Alberto Pratesi, il greenwashing nasce negli anni ‘70 e ‘80, quando le aziende dell’epoca avevano la necessità di distrarre l’opinione pubblica dall’impatto ambientale negativo generato da alcune attività produttive, che spesso portavano a veri e propri disastri ambientali. 

In tal senso, non si può evitare di citare i terribili disastri provocati dagli incidenti alle petroliere, come quelli della Amoco Cadiz (1978) e della Exxon Valdez (1989), responsabili di aver riversato in mare decine di migliaia di litri di greggio (la prima) e decine di milioni di litri di greggio (la seconda).

Il greenwashing è quindi un «marketing di facciata», un «ecologismo di facciata», un «ambientalismo di facciata», una strategia di marketing e di comunicazione utilizzata da aziende e istituzioni per far passare come ecosostenibili i propri prodotti e servizi, le proprie attività e il proprio operato, celandone il reale impatto ambientale.

Quante aziende fanno ricorso al greenwashing?

Parliamo adesso delle aziende che sfruttano il greenwashing nelle loro strategie di marketing e comunicazione.

Nel gennaio del 2021, la Commissione Europea ha pubblicato un report sul greenwashing. Le aziende che fanno greenwashing sono risultate essere il 42% di tutto il campione analizzato. Inoltre, in più della metà dei casi in oggetto non erano state fornite sufficienti informazioni per poter verificare l’effettiva veridicità di quanto affermato. 

Si tratta quindi di girare continuamente intorno a termini come “rispettoso”, “sostenibile” e “verde”, senza portare alcuna prova che possa confermare l’impatto reale di queste affermazioni. 

Insomma, chi fa greenwashing è consapevole di giocare in una zona grigia, fatta di allusioni e giochi di parole che ruotano attorno a una presunta sostenibilità ambientale.

Come si fa a riconoscere il greenwashing? 

Come si fa a capire se un’azienda è realmente sostenibile e quando invece non lo è? 

Per poter rispondere a questi quesiti sarebbe necessario verificare cosa dichiara un’azienda a livello di responsabilità sociale d’impresa. E quindi andare a leggere ogni singola voce di bilancio dell’azienda, analizzare l’impatto di ogni passaggio della filiera produttiva e scavare nei meandri di articoli, materiale informativo, comunicati stampa e chi più ne ha più ne metta. Insomma, ad eccezione di aziende al centro di particolari scandali mediatici, per tutte le altre risulterebbe un’operazione praticamente impossibile.

Anche se, con i giusti strumenti del mestiere, niente è impossibile.

Ci sono infatti dei trucchetti che ricorrono spesso nelle strategie di marketing e comunicazione di prodotti e servizi, così come nel loro packaging. Questi escamotage, se individuati e analizzati in relazione al contesto, possono farci scattare un campanello d’allarme.

Si parla a tal proposito dei cosiddetti 7 peccati del greenwashing, una serie di strategie di manipolazione per far credere al consumatore di star comprando un prodotto sostenibile e rispettoso dell’ambiente, quando in realtà il prodotto in questione non ha niente di sostenibile o, nel peggiore dei casi, è addirittura dannoso per l’ambiente.

I 7 peccati del greenwashing

Si tratta di tecniche diffuse da decine di anni e che ancora oggi continuano a insidiare i mercati del mondo. In altre parole, sono un evergreen del falso green marketing.

1. Il compromesso nascosto

Si pone l’accento su una determinata caratteristica del prodotto o del servizio, celando tutti gli aspetti negativi dello stesso (come la filiera produttiva inquinante e i costi di smaltimento).

Ad esempio, le lampadine “a basso consumo energetico”.

2. La mancanza di prove

Affermare semplicemente che un prodotto sia sostenibile senza spiegarne il motivo, né fornire alcuna prova o risultato di ricerca. Assenza del fact checking: le certificazioni sono di parte (non indipendenti) o del tutto assenti.

3. Imprecisione o vaghezza

Si fa leva sulle caratteristiche naturali del prodotto. Peccato che “bio” non sia sinonimo di “sostenibile”.

Ad esempio, anche l’amianto è un materiale naturale. Avrebbe forse senso definire l’amianto “bio”?

4. Informazioni non pertinenti o irrilevanti

Informazioni che pur essendo vere non comportano alcun beneficio dal punto di vista ambientale.

Ad esempio, segnalare l’assenza di una sostanza vietata per legge, facendolo passare per un merito.

5. Il minore dei due mali

Mettere in evidenza un aspetto positivo, celando allo stesso tempo tutti gli aspetti negativi del prodotto o del servizio. E anche nel dubbio, scelgo il meno peggio.

Ad esempio, la bottiglia di plastica con il 30% di materiale riciclato. La questione non è di usare o meno la plastica riciclata, il vero problema è usare bottiglie di plastica usa e getta.

6. La deformazione dei fatti

Fornire informazioni non veritiere o falsificare i dati. Per fortuna, le regolamentazioni di oggi rendono più difficile attuare questa tecnica, soprattutto negli Stati membri dell’Unione Europea.

7. Le false etichette

Si riportano fantomatiche certificazioni o si applicano bollini che rimandano vagamente al concetto di ecosostenibilità. Oppure vengono realizzati dei loghi simili a quelli delle certificazioni esistenti.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo parlato del green washing e delle sue sfumature.

Il greenwashing è uno degli aspetti sicuramente più complessi e controversi del mondo del marketing aziendale e in continua evoluzione. Si trasforma nel corso del tempo, si adatta ai nuovi contesti, ma è una tematica che permane forte e vigora come una piovra in cerca delle sue prede di sempre: i consumatori.

Fonti

Questo articolo è una rielaborazione e un ampliamento di un contenuto originale precedentemente pubblicato sulla pagina di Midable in data 25 Agosto 2020.

  • Rapporto Terrachoice (2009) citato in La comunicazione sociale in Italia cinque anni dopo, Nicoletta Bosco (2011)